Introduzione,
(a cura di Maria Pia CRITELLI)
 

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IL PRIMO REPORTAGE DI GUERRA

Tradizionalmente la primogenitura del reportage fotografico di guerra è attribuita all’inglese Roger Fenton che nel 1855 realizzò fotografie-documento sulla campagna di Crimea, e molto conosciute sono la fotografie della Guerra di Secessione statunitense quali quelle di Brady, O’Sullivan e Gardner.
Come è logico aspettarsi nel caso italiano, sono le battaglie e gli eroi del Risorgimento che attraggono l’attenzione dei fotografi. Realizzato plausibilmente già nel luglio 1849, il racconto fotografico che sulle rovine di Roma operò Stefano Lecchi, avvalendosi del metodo della carta salata o calotipia, costituisce pertanto il primo esempio di reportage o, più esattamente, di protoreportage di guerra finora conosciuto.
Non si hanno dati precisi sul numero delle fotografie che costituivano inizialmente il reportage né sulla loro diffusione e sul loro valore economico: possediamo infatti solo poche ma significative indicazioni sull’utilizzo e finalità delle immagini in un preciso ambito garibaldino, grazie al ricordo della scrittrice inglese e patriota della causa italiana Jessie White Mario che le ricorda nella casa di Agostino Bertani a Genova, e grazie al fatto che le carte salate di Roma appartengono alla collezione di Alessandro Calandrelli, che fu deputato alla Costituente romana, colonnello dell’esercito della Repubblica e infine triumviro, insieme a Livio Mariani e Aurelio Saliceti, dopo le dimissioni di Mazzini, Saffi e Armellini.
Esse sono state ritrovate, insieme ad altre carte salate di Lecchi con vedute di Roma, da Silvia Paoli presso la Civica Raccolta della Stampe Achille Bertarelli di Milano. Quasi contemporaneo e particolarmente significativo è stato il ritrovamento da parte di Marina Miraglia di quarantuno carte salate presso la Biblioteca di Storia Moderna Contemporanea di Roma.
Si è così riusciti ad approfondire ed integrare i dati relativi all’attività fotografica di Lecchi nella Roma del 1849. Ad oggi si conoscono ben cinquanta fotografie della Roma del 1849: nove di esse rappresentano vedute mentre le altre si riferiscono agli eventi della difesa della Repubblica.
Il reportage non è, né poteva essere per le caratteristiche dei mezzi tecnici del tempo, un resoconto esaustivo dei vari momenti della lotta sostenuta; ma era finalizzato a richiamarli registrandone ed evidenziandone gli effetti. Per chi sapeva e voleva ricordare, i luoghi erano inestricabilmente legati ai singoli episodi di battaglia, di valore, ai fatti e alla memoria degli uomini che vi avevano lottato e che spesso vi erano morti.
Alla limitata circolazione di immagini originali, legata anche alla difficoltà tecnica della riproduzione, corrispose invece una notevole diffusione delle immagini da esse direttamente ricavate. Infatti molte litografie dell’epoca sulla difesa di Roma, per le quali vi era grande richiesta, riproducono esattamente lo scenario fotografato da Lecchi, animandolo con le figure dei combattenti, di caduti, ecc. Il conte De Cuppis fornisce una valida, anche se indiretta, indicazione per la datazione delle fotografie, dato che, in un articolo, apparso il 22 settembre 1849 su L’Album, annunciava come imminente pubblicazione del suo Atlante, corredato da litografie, che appaiono ricavate dalle fotografie di Lecchi. Ne consegue che, molto probabilmente la campagna fotografica fosse stata effettuata già nel luglio, o al più nell’agosto, del ’49. Ipotesi questa rafforzata dall’esame dal paesaggio agrario presente nelle fotografie della collezione Calandrelli.


STEFANO LECCHI: NOTE BIOGRAFICHE

«Fin dal 1844 quest’Italiano presentava all’Accademia delle Scienze di Parigi un suo metodo fotografico che impiega per le negative le carte asciutte al bromuro di jodio. Le disgrazie che quindi il colpirono gl’inibivano svolgere maggiormente il suo metodo che non è privo di pregio in certi risultati.».
Con queste parole Stefano Lecchi viene ricordato nel 1863 da Augusto Castellani nel suo manoscritto “Notizie di fotografia” conservato presso l’Archivio di Stato di Roma.
Scarse ed incerte sono le informazioni che abbiamo, ancora, sulla sua vita.
Nato probabilmente nel 1805 nel territorio tra Lecco e Milano, dovrebbe essere morto prima del 1863. Castellani, infatti, ne parla al passato. Plausibilmente apparteneva a quella cerchia di calotipisti che è stata definita “Scuola Romana di fotografia” cui appartenevano tra gli altri Frédéric Flachéron, Thomas Sutton, il principe Giron des Anglonnes, Eugene Constant, Giacomo Caneva. La sua attività come fotografo è attestata già dal 1842 quando il Segretario dell’Accademia delle Scienze di Parigi presentava, per conto di un tal “Lechi”, un metodo per colorare i dagherrotipi. Nel 1844 è poi lo stesso Lecchi che sottopone al giudizio dell’Accademia un apparecchio fotografico dotato di un dispositivo per regolare con precisione la messa a fuoco.
Nel 1845 è in Provenza, dove risulta ormai affermato come calotipista, poi in Toscana, dove esegue una veduta della torre di Pisa oggi nella collezione Piero Becchetti, e in Campania, infine a Roma dal 1849 al 1859, con una breve assenza dalla città, tra il 1855 e il ‘56. Nell’anno 1851 dagli Stati delle anime della parrocchia di San Giacomo in Augusta di Roma risulta che il pittore Stefano Lecchi di Antonio, nativo di Milano, abitava in via del Corso con la moglie Rizzo Anna Maria e quattro figli.
Dopo il 1859 la sua presenza a Roma non è più documentata.


LA CARTA SALATA

Nel 1841 il fisico inglese William Henry Fox Talbot, brevettò il procedimento con il quale, utilizzando come supporto per il materiale sensibile la carta, era possibile ottenere da un'immagine negativa più copie positive. Nasceva così la calotipia che fu molto utilizzata dal 1839 al 1860 e rappresenta il primo vero procedimento di stampa fotografica in senso moderno.
Questo processo detto “a stampa diretta” o “ad annerimento diretto”, perché avveniva sotto l’azione della luce, ebbe molte varianti e miglioramenti e fu la tecnica più diffusa durante l’ottocento.
La denominazione della tecnica deriva dalla soluzione salina (generalmente cloruro di sodio, ioduro di potassio, cloruro di ammonio, o, nel caso di Lecchi, bromuro di iodio) con cui era trattata la carta che poteva pertanto essere conservata a lungo.
I fogli di carta, al momento dell’uso, venivano sensibilizzati in una soluzione di nitrato d’argento ed essiccati, Così preparate le carte venivano esposte alla luce, a contatto diretto con il negativo in un torchietto. Un dorso incernierato consentiva di sollevare un lembo della carta salata e controllare quindi il processo di annerimento.
Il tempo della stampa era veloce se venivano esposte alla luce diretta del sole ma si otteneva così il minimo contrasto; esponendole invece per un tempo più lungo a una luce diffusa si otteneva una stampa più contrastata.
Dopo la stampa si procedeva a lavare in acqua la carta eliminando così l’eccesso di nitrato d’argento.
L’immagine aveva di solito un colore bruno–rossastro.
L’uso di un supporto costituito da un materiale fibroso come la carta provocava inevitabilmente fenomeni di diffusività che impedivano alla carta salata di avere quelle caratteristiche di nitidezza e chiarezza di dettagli ottenibili invece con la dagherrotipia.


Maria Pia CRITELLI