Per saperne di più,
La difesa di Roma

Ritorna a:
La difesa di Roma vista dagli Italiani



PREMESSA
La difesa della Repubblica Romana è uno degli avvenimenti più significativi, ed anche uno dei momenti conclusivi, di quella aspirazione popolare all'indipendenza nazionale che iniziata nel 1848 con la lotta nelle strade e le barricate della rivolta milanese contro gli austriaci, doveva chiudersi con la caduta della Repubblica di Venezia il 24 agosto 1849.
Essa ne costituisce uno degli episodi ideologicamente ed emotivamente più alti, per le varie e complesse implicazioni e idealità che la storia classica e contemporanea della città richiamava e rendeva attuali.
Da un lato, infatti, l'Urbe rappresentava il punto di riferimento primario, se non proprio la capitale, di un futuro stato unitario, da un altro il suo affrancamento dall’egemonia papale doveva costituire il punto di partenza per coloro che desideravano un libero Stato e una libera Chiesa.
Non è quindi un caso che la Repubblica fin dalla sua nascita avesse rivestito un prestigio morale così elevato da attrarre tanta parte della gioventù nazionale.

La Commissione di guerra
Il 5 marzo 1849 giungeva a Roma Giuseppe Mazzini e poco dopo veniva nominata, su sua proposta, una Commissione di guerra presieduta dall'ex-ufficiale borbonico Carlo Pisacane. La Commissione concluse i lavori ai primi di aprile e in previsione di una probabile lotta con l’Austria e con i Borboni propose di concentrare l'esercito in due campi, uno a Bologna e uno a Terni, portando gli effettivi al numero di 45-50 mila.
Dopo la sconfitta piemontese a Novara, giungeva nell'Urbe il generale Avezzana che fu nominato Ministro della Guerra.
La Repubblica poteva contare per la sua difesa su reparti del vecchio esercito pontificio, reparti di guardie nazionali mobili e reparti di volontari tra cui un battaglione universitario e la legione italiana che era stata formata da Garibaldi in Romagna.

Roma: una città non fortificata. Il "caso Gianicolo"
Roma non si presentava come una città fortificata: aveva una cinta muraria, le mura Aureliane, che non offrivano una protezione adeguata ed erano state rinforzate solo per brevi tratti con bastioni nel tratto limitrofo alla porta San Paolo. L'unico tratto che era stato realizzato con un criterio più moderno era quello che comprendeva la zona trasteverina fino al suo congiungimento alle mura vaticane. L'opera fatta realizzare da papa Urbano VIII nel XVII secolo aveva previsto la revisione del tracciato delle mura preesistenti con l'avanzamento di porta San Pancrazio e l’arretramento della porta Portese, la realizzazione ad intervalli regolari di bastioni e l'inserimento all'interno della nuova cinta dell'intero colle gianicolense. Tale inclusione rispondeva ad una ben precisa esigenza strategica: il possesso del Gianicolo metteva, infatti, in condizione un eventuale attaccante di bombardare a suo pieno agio la città sottostante. Non a caso Oudinot, sbarcato col corpo di spedizione francese il 25 aprile a Civitavecchia, decise di attaccare proprio questa zona ponendo le sue retrovie, accampamenti e depositi a Monteverde e non fece che manovre diversive su altre direttrici.
Il problema difensivo della zona era aggravato dal fatto che il terreno antistante si trovava allo stesso livello delle mura, alcune ville extraurbane (quali ad esempio il casino dei Quattro Venti) superavano addirittura in altezza la porta San Pancrazio.
Sebbene tatticamente più praticabile un attacco ad uno dei tratti di mura situati sulla riva sinistra del Tevere avrebbe invece posto ai Francesi il grave problema strategico di avanzare in combattimenti che si presupponeva potessero svolgersi strada per strada senza poter contare su un efficace appoggio delle artiglierie, senza contare le conseguenze psicologiche che un pesante danneggiamento della città, nei suoi monumenti come nei suoi luoghi di culto, avrebbe avuto sulla intellighenzia europea ma anche e soprattutto su quella componente conservatrice e cattolica sul cui incondizionato appoggio alla spedizione il principe-presidente Luigi Napoleone contava per preparare la via alle sue più alte ambizioni.
La Repubblica decise di concentrare la difesa sulla riva destra mentre tutte le porte di accesso alla città e ponte Milvio venivano presidiati e posti in assetto di difesa e le postazioni elevate limitrofe alle mura, quali il bastione della Colonnella sull’Aventino e Monte Testaccio, venivano munite di batterie d'artiglieria. .
Lo sbarco delle truppe francesi al comando del generale Oudinot, inviato ufficialmente con un ambiguo mandato di pacificazione, spinse ed accelerò i preparativi per la difesa.

L'arrivo di Garibaldi e Manara
Garibaldi, che aveva partecipato alla campagna dell’agosto '48 e già a dicembre si era messo al servizio del governo romano, si trovava a Rieti dove riordinava la sua Legione. Su ordine del ministro della Guerra il generale Avezzana, che il 23 aprile lo aveva nominato generale di Brigata, giunge a Roma il 27 accolto trionfalmente dalla popolazione. Di fatto divenne immediatamente il simbolo della difesa della città, anche se nominalmente gli era stata affidata la difesa del solo Gianicolo, ma era evidente a tutti che tale colle rappresentava la chiave di volta della difesa. A quel momento disponeva della sua Legione, del Battaglione studenti, del Battaglione dei "Reduci" formato dai volontari dello Stato Pontificio, per un totale di circa 2500 uomini. Ad essi si aggiungevano le truppe del colonnello Galletti, circa 1800 uomini tutti provenienti dall’esercito pontificio, tenute di riserva, e quelle del colonnello Masi, 2000 uomini divisi tra 2 battaglioni di guardia nazionale mobile e 2 battaglioni regolari, che presidiavano le mura vaticane.
Ma il vero alter ego di Garibaldi, Luciano Manara, doveva ancora apparire sulla scena. Approdato con i suoi 600 bersaglieri lombardi a Civitavecchia, si era ivi imbattuto nel corpo di sbarco di Oudinot che lo aveva lasciato proseguire per Roma con l'impegno di non partecipare ai combattimenti se non dopo il 4 maggio. Il che conferma la sicurezza del generale francese di trovare al massimo una resistenza poco più che simbolica alla sua avanzata. Manara entra in città il 29 aprile e non partecipa pertanto alla giornata del 30. All'inizio diffidente delle truppe garibaldine per la loro scarsa disciplina si ricrede sul campo combattendo al loro fianco contro i soldati napoletani. Da quel giorno comincia un connubio d'intenti tra i due patrioti che vede i bersaglieri combattere agli ordini di Garibaldi nella difesa del Gianicolo; sodalizio che si concluderà solo con la morte del giovane lombardo colpito a Villa Spada.

Il problema della difesa militare
Tra i maggiori esperti di questioni militari erano a Roma Giuseppe Garibaldi e Carlo Pisacane.
Il dissidio tra Garibaldi e Mazzini fu caratterizzato da incomprensioni e malintesi che erano legati alla diversità di concepire e condurre la difesa di Roma e della Repubblica il che voleva dire il modo di intendere e gestire la guerra nazionale e popolare. Mentre la concezione mazziniana puntava ad un consolidamento delle conquiste anche a costo di estenuanti trattative diplomatiche con personaggi di non comprovata affidabilità, Garibaldi per sua natura e capacità tendeva ad una lotta insurrezionale in continuo movimento che si ampliasse ed estendesse a sempre nuovi territori e nuove realtà come nel caso della sua tendenza a sfruttare la sconfitta dell'esercito borbonico con un’avanzata nel territorio napoletano.
Prevalse la real politik di Mazzini e Garibaldi fu richiamato a Roma a difendere una situazione che diveniva sempre più difficile.

Il 30 aprile
Al mattino del 30 aprile Oudinot si dirige con le sue forze verso Porta Pertusa senza accorgersi che essa era stata murata e si trova di fronte all'energica risposta dell'artiglieria romana. I francesi si dirigono allora verso Porta Cavalleggeri, mentre un'altra colonna, che era avanzata verso Porta Angelica trovava un'altrettanto accanita difesa. L'attacco, portato su i tre fronti delle mura Vaticane, falliva e Garibaldi decideva di contrattaccare dalla direttrice del Gianicolo per prendere di fianco e alle spalle i francesi. Sull' Aurelia Antica il Battaglione degli studenti, avanguardia delle forze romane, si scontra con le truppe francesi poste a difesa del fianco dell’esercito di Oudinot. I patrioti devono arretrare, ma Garibaldi, forte dei rinforzi ricevuti da Galletti riconquista le posizioni perdute di Villa Corsini e Villa Pamphili. Oudinot, minacciato di accerchiamento, si ritira verso Civitavecchia inseguito per un breve tratto dai patrioti romani. La sera la città era un tripudio popolare e rallegrata da innumerevoli luminarie.
Mazzini impose a Garibaldi di non inseguire ulteriormente i francesi. Tale atteggiamento è probabilmente spiegabile con il suo desiderio di lasciare qualche spiraglio a trattative con la Repubblica francese sperando che nel parlamento francese ci fosse un rovesciamento di posizioni favorevole a chi, come Ledru-Rollin, si era opposto alla spedizione a Roma. D'altronde i fatti del 30 aprile sembravano smentire su campo la propaganda di Luigi Napoleone che dichiarava necessario l'intervento delle truppe francesi come strumento per restaurare il potere pontificio contro un regime, quello repubblicano, da lui descritto come imposto da elementi esterni ed estranei all'Urbe e sgradito alla stessa popolazione romana.

Il combattimento di Palestrina e i contrasti sulla difesa
D'altronde altri nemici si muovevano contro la Repubblica: già il 16 aprile le truppe austriache avevano occupato dopo un’accanita resistenza Bologna. Ma la minaccia più immediata per l'Urbe era costituita dai 12000 uomini dell’esercito borbonico che, sotto la diretta guida del re, avanzava da Napoli. Mentre l'avanzata austriaca viene ritardata dalla resistenza degli anconetani, la Repubblica Romana invia Garibaldi alla testa della sua Legione, del Battaglione Manara, del battaglione studenti e dei lancieri di Masina contro i borbonici. Il 9 maggio nei dintorni di Palestrina avviene lo scontro tra gli eserciti dopo poche ore i borbonici volgevano in piena ritirata. Garibaldi puntava ad inseguirli fin oltre il confine, ma, di nuovo, un ordine diretto di Mazzini gli imponeva di tornare a Roma.
Il ruolo di Garibaldi a Roma è quello di un generale in continuo conflitto col potere politico, soprattutto col triunviro Mazzini. A quest'ultimo premeva soprattutto un accordo con la Francia che consentisse alla Repubblica di consolidarsi. Garibaldi invece intendeva invadere il Sud per portarvi la rivoluzione. Mazzini, enfatizzando il valore simbolico della resistenza di Roma all'assedio francese, desiderava concentrare le forze nella difesa militare della città ritenendo che le trattative con Parigi non andassero in fumo, mentre non nutriva grande fiducia nel potenziale rivoluzionario del Regno della Due Sicilie.
Il 15 maggio giungeva da Parigi Lesseps, con una missione conciliativa. Le trattative portavano il 17 ad una sospensione delle ostilità concordata fino alla data del 4 giugno. Probabilmente il Lesseps era in buona fede, ma non altrettanto il governo francese che approfittò del periodo di tregua per inviare ad Oudinot i rinforzi, soprattutto artiglierie da assedio, da questi sollecitati.
Nel frattempo a capo dell'esercito romano era stato nominato un ufficiale ex-pontificio il generale Pietro Roselli. La nomina del Roselli, ufficiale con scarsa esperienza su campo, fu probabilmente dovuta ad esigenze di opportunità politica: un romano, per giunta moderato, dimostrava ulteriormente ed evidentemente all'Europa che la difesa di Roma coinvolgeva direttamente i Romani e non necessariamente tra essi solo quelli più sovversivi.
Al suo fianco era stato posto, col grado di colonnello, il trentenne Carlo Pisacane, che era stato tenente del genio nell'esercito borbonico e poi, dopo aver militato nell’esercito francese, volontario sulle Alpi bresciane, e che, secondo Mazzini, "era l'ufficiale nato per la guerra d'insurrezione".
Garibaldi rimaneva alle dipendenze di questi due ufficiali da cui lo dividevano sia il temperamento quanto la concezione stessa del combattere rivoluzionario. Non a caso al comando dell'esercito veniva definito "il corsaro". Lo stesso Manara, come già detto, all'inizio diffidava di Garibaldi. Il 4 maggio scriveva "è un diavolo, è una pantera", le sue truppe sono costituite da "una massa di briganti" e "io vado con il mio corpo disciplinato, fiero, taciturno, cavalleresco [ ... ] a sostenere il suo impeto matto".
A sua volta un contrasto strategico nasce tra Pisacane e Mazzini. Il primo riteneva necessario che la Repubblica assumesse una posizione offensiva rispetto ai propri nemici: dopo che l'esercito borbonico era stato costretto alla ritirata con i fatti del 9 maggio e i successivi eventi del 19, i nemici primari restavano le truppe austriache che avanzavano sulla direttrice di Ancona e quelle francesi. Tanto più che il governo di Luigi Napoleone aveva sconfessato pubblicamente l'azione di Lesseps ed inviava in Italia rinforzi portando il corpo di spedizione a 30.000 uomini con un potente appoggio di artiglieria d'assedio e servizi del genio atti a costituire un potente strumento d'assedio. Non a caso ne era stato posto a capo quello che era considerato il miglior tecnico bellico di Francia: il generale Vaillant.
Il progetto Pisacane prevedeva pertanto di concentrare le truppe della Repubblica, sia quelle propriamente dell'Urbe che quelle provinciali, su Terni e Foligno in modo di garantire ad esse una posizione centrale che consentisse di intervenire prontamente su uno dei due fronti pericolosi e battere separatamente i diversi nemici.
Mazzini al contrario voleva che la difesa si concentrasse in Roma, più per valutazioni politiche che militari. La sua concezione del movimento insurrezionale all'epoca puntava all"'aver governo", ovvero sia alla conquista del potere in qualche parte del territorio italiano in modo da avere una testa di ponte che, fornendo i mezzi bellici e finanziari, consentisse la successiva espansione della rivoluzione. Ad essa si aggiungeva la valenza simbolica che una lotta condotta nella e per la città eterna costituisse una sorta di riscatto della decaduta Urbe fornendole quel prestigio morale che la facesse assurgere all'antica gloria come esempio di virtù, eroismo, tenacia e sacrificio che la rendesse degna di essere la capitale della nuova Italia del popolo sovrano.

L'attacco francese del 3 giugno
Il 1 giugno Oudinot informa la Repubblica che la tregua era spirata e che la "place" di Roma sarebbe stata attaccata il 4 giugno per permettere l'evacuazione dei francesi residenti in città. L'ambiguità del termine usato avrebbe fatto sì che i patrioti romani avrebbero dato per scontato che ogni azione bellica fosse stata rimandata a tale data, ivi comprese le eventuali azioni contro le ville situate all'esterno della cinta muraria. Lo stesso Roselli, recatosi il 2 giugno a visitare Villa Pamphili, aveva affermato che non occorreva vigilare in quanto l'attacco francese non avrebbe avuto luogo prima del giorno 4.
Lo stesso giorno, Garibaldi, a cui era stato ampliato il comando all'intera riva destra del Tevere, era rimasto in città per i postumi della ferita riportata il 30 aprile ed aveva delegato la vigilanza a Galletti.
L'attacco francese colse pertanto impreparati i difensori.
La notte tra il 2 e il 3 una colonna, al comando del generale Mollières, apre una breccia nel muro di cinta di Villa Pamphili e le truppe francesi irrompono in essa. Contemporaneamente sull'altro versante, un'altra colonna, al comando del generale Levaillant, irrompe dal cancello aperto della Villa. I 400 difensori colti nel sonno vengono in parte fatti prigionieri; gli altri retrocedono su Villa Corsini ed il convento di San Pancrazio. Nonostante i rinforzi inviati da Galletti i patrioti, sottoposti a colpi dell'artiglieria, devono, dopo una lotta violenta, abbandonare tali posizioni.
Per Vaillant, la conquista di Villa Pamphili è elemento fondamentale per organizzare le operazioni di assedio. D'altronde essendo mancato un contrattacco immediato, la riconquista della Villa Corsini si configurava come un'impresa al limite del disperato. La morfologia del terreno e la configurazione topografica della zona costringeva, infatti, i patrioti ad avanzare su un'unica direttrice, per di più in salita, ed esposta ai colpi frontali dell'avversario ormai saldamente posizionatosi. Al contrario i francesi hanno alle loro spalle degli ampi spazi protetti che consentono un libero movimento di truppe. La giornata viene pertanto caratterizzata da un continuo susseguirsi di attacchi portati avanti da prima dalla Legione Italiana a cui si aggiungono poi i bersaglieri di Luciano Manara. Il Casino dei Quattro Venti viene ripreso, perduto e così via con uno stillicidio di assalti e contrassalti che porta a un grandissimo tributo di sangue da parte dei patrioti: circa 1000 tra morti e feriti su un totale di 6000 uomini. Nella giornata cadono tra gli altri, Francesco Daverio, Enrico Dandolo e Angelo Masina; Goffredo Mameli riceve la ferita che lo porterà alla morte. Alla fine della giornata ai difensori non resta altro che ripiegare sul Vascello.
Garibaldi subì forti critiche per aver condotto una serie di attacchi frontali adoperando le forze poco alla volta, ma va considerato che la situazione, di per sé difficile tatticamente, era aggravata dal fatto che le truppe necessarie, per la loro cattiva dislocazione iniziale, gli venivano inviate poco alla volta.
Lo stesso giorno i francesi conquistano anche Ponte Milvio nonostante il Battaglione Reduci e la Legione Romana ne avessero fatto saltare il piano di calpestio. Ciò apriva ad Oudinot il libero movimento sulla riva sinistra del Tevere.

L’assedio
Forte delle posizioni conquistate Vaillant poteva procedere alle operazioni del vero e proprio assedio, l'epica lotta che sarebbe durata dal 4 al 30 giugno. Le operazioni si concentrarono essenzialmente sui bastioni delle mura gianicolensi contrassegnati di numeri dal 6 al 9 (ovverosia dal bastione antistante al Casino Barberini, attuale Casino Sciarra, fino a quello antistante Villa Savorelli, passando per la porta San Pancrazio).
Ai difensori restavano fuori le mura due soli avamposti: la Villa Giacometti ed il Vascello che erano stati collegati con trinceramenti alla Porta San Pancrazio. A capo del distaccamento del Vascello era stato posto Giacomo Medici, mentre Luciano Manara sostituiva Daverio, morto il 3 giugno, come capo di stato maggiore di Garibaldi.
Il bombardamento francese sulla città colpiva ormai oltre a Trastevere il cuore della città e le bombe arrivavano fino a Largo Argentina ed al Campidoglio. Una testimonianza diretta del bombardamento è presente nella chiesa di San Bartolomeo all'Isola ove si trova ancora incastrata in una parete una palla di cannone.
Pisacane, appoggiato da Mazzini, propose una sortita da effettuare da Porta Cavalleggeri; l'idea fu modificata da Garibaldi che propose di effettuarla di notte. Egli, infatti, riteneva che le truppe volontarie, prive ormai dei molti ufficiali caduti, erano più adatte ad azioni impetuose ed ardite ma poco adatte alle manovre tattiche. Si decise di effettuare l'azione la notte del 10 giugno. Come tipico in queste situazioni ai soldati fu fatta indossare la camicia sull'abito in modo che essi potessero riconoscere gli amici dai nemici. Ma l'impresa abortì a causa della confusione che si trasformò ben presto in panico.
Cadeva nel frattempo la speranza di un appoggio internazionale: la richiesta di aiuto agli inglesi portata avanti dal conte Rusconi non aveva seguito, mentre il moto parigino a favore della Repubblica romana del 13 giugno falliva. Ormai ogni speranza era preclusa e non restava che una fine dignitosa che fungesse da esempio e monito per le future vicende.
Nel frattempo le batterie francesi avevano aperto numerose brecce nelle mura Gianicolensi. La notte del 21 con un attacco a sorpresa i francesi hanno ragione dei difensori ormai stremati; sul Gianicolo, rimangono i mano ai patrioti i soli bastioni 9 e 8.
Garibaldi e Manara riescono ad organizzare una seconda linea di difesa che comprendeva l'antica cinta Aureliana; la porta San Pancrazio e il casino del Vascello. I bersaglieri si attestavano immediatamente alle spalle della linea difensiva nella Villa Spada.
Nonostante le speranze di Mazzini, sostenute da Galletti e Pisacane, un contrattacco non avvenne perché ritenuto impossibile da Garibaldi e Manara. Garibaldi proponeva invece di utilizzare gli uomini rimasti della sua Legione per effettuare un attacco sulle retrovie nemiche alleggerendo così la pressione sulla linea difensiva.
Mazzini approvava il piano, ma poi l'ordine veniva revocato per le pressioni di Roselli. Solo le pressioni di Manara convincevano Garibaldi a tornare al suo posto. Il generale ordinava a tutti i componenti della Legione di indossare la camicia rossa già prescritta agli ufficiali, salutava Anita arrivata da due giorni, e la mattina del 28 si portava a Villa Spada.
Il 29, giorno dei Santi Pietro e Paolo, il governo della Repubblica volle mantenere, pure nelle sue precarie condizioni, la tradizione della luminaria della Cupola, allora una delle tradizioni più celebri e celebrate della città.

Il 30 giugno e la fine della Repubblica
Nella notte tra il 29 e il 30 i francesi avanzavano con due colonne contro il bastione 8 e contro Villa Spada. Il bastione è preso, villa Spada resiste; Emilio Morosini, difensore del bastione, è ferito gravemente e morirà il giorno dopo in un'ambulanza francese.
All'alba Garibaldi richiama Medici dal Vascello e lo fa ripiegare a difesa della ormai diruta Porta San Pancrazio.
Annientata la batteria del Pino i francesi attaccano Villa Spada, dove è ferito a morte Manara.
Dopo un ultimo contrattacco delle rimanenti truppe di Garibaldi, si giunge a mezzogiorno, quando si stipula una tregua, ma ormai la difesa è irrimediabilmente finita.
La mattina Mazzini ha convocato una riunione dei capi militari per valutare la situazione, ma Garibaldi gli fa comunicare di non poter abbandonare la difesa nemmeno per un attimo. Tre sono le ipotisi prospettate nella riunione: capitolare, difendersi ad oltranza con la lotta strada per strada, uscire da Roma e portare la guerra nelle province. Mazzini, Roselli e Pisacane era favorevoli a quest'ultima ipotesi ma Avezzana e gli altri membri del consiglio furono per la continuazione della guerra in città. L'arrivo di Garibaldi mutò però la situazione; egli, infatti, chiariva l'impossibilità di continuare la lotta sul Gianicolo ed in città, meglio accettare la proposta di Mazzini. Scaturì invece la deliberazione: "L'Assemblea Costituente romana cessa da una difesa divenuta impossibile, e sta al suo posto"
Ed, in effetti, l'Assemblea continua a lavorare discutendo gli articoli della nuova Costituzione che verrà approvata il 2 luglio. Essa inoltre conferiva pieni poteri sia a Garibaldi che a Roselli di continuare la guerra su tutto il territorio della Repubblica. Mentre Roselli decide di tenere le sue truppe nell'Urbe, Garibaldi dà un appuntamento ai difensori della Repubblica il 3 luglio a Piazza San Pietro. In 4700 rispondono al suo appello: "Non offro né paga, né quartiere, né provvigioni; offro fame, sete, marce forzate e morte". Alle 20 alla testa delle sue truppe usciva da Porta San Giovanni dirigendosi verso i Colli Albani. In quello stesso pomeriggio i francesi procedevano vittoriosi e baldanzosi lungo il Corso.

MARIA PIA CRITELLI