Relazione Agostino Bistarelli 28 Novembre 2008

28 novembre 2008 – relazione dottor Bistarelli

Uno specchio dell’Italia dei suoi tempi: Carlo Pisacane e il Risorgimento”Io lo vedo in certo modo come uno specchio d’Italia nel suo tempo. In lui, per quanto non uomo di primissima linea nel Risorgimento, anzi proprio perché non lo fu né mai pretese di esserlo, si riflettono infatti le varie esigenze, aspirazioni, impostazioni ideali del popolo italiano a mezzo il secolo XIX” 1. Come è stato già sottolineato “Nello nel Pisacane ha messo tutto se stesso: è la sua più intima autobiografia” 2. Questa annotazione ci fornisce già una chiave interpretativa chiara: una linea di collegamento che nel buio del regime fascista (aldilà della fine tragica che li accomuna anche nella morte precoce 3) afferma della tradizione mazziniana il segno della costruzione di una Italia alternativa e libera, fuori dall’Italia quando la patria è asservita. Ma anche sul termine specchio utilizzato da Rosselli dobbiamo riflettere e mi aiuta una ottava romanesca:

La verità, purtroppo è come er vetro
Ch’è trasparente si nun è appannato,
pe’ nasconne quello che c’è dietro
basta ch’uno apre bocca e je dà fiato! 4

 

Dunque dobbiamo evitare appannamenti e capire quale immagine questo ci restituisce. Pisacane fu soldato, storico, politico ed ideologo, ma anche romantico e transfuga della sua classe sociale. Questa molteplicità restituisce come un prisma immagini diverse e per questo la sua non può essere vista come l’autobiografia di una nazione, se pure in divenire Piuttosto illustra tante potenziali strade, tante possibili interpretazioni di quello che sarebbe potuto essere, e che per parti minoritarie della società, della politica e della memoria nazionale è stato, il profeta suicida.

Convinto della necessità di una azione autonoma italiana, non subordinata all’iniziativa di altri paesi, Pisacane vede nell’arretratezza del paese una paradossale ricchezza dovuta al ritardo sulla strada del progresso: una borghesia debole non sarà un grande ostacolo al popolo nel momento della rivendicazione del potere; la borghesia è necessariamente alleata del popolo nella prima fase della rivoluzione perché deve liberarsi dei governi assoluti. Dunque la sua concezione della rivoluzione, negando l’obbligatorietà di una fase borghese nel percorso di una società verso il socialismo pone l’accento più sull’importanza della volontà e dell’iniziativa rivoluzionaria piuttosto che sul determinismo socio-economico. Per questo è in contrasto con il Ferrari della federazione repubblicana e la sua ricerca è invece “rivolta alla ricognizione e al risveglio delle forze motrici della rivoluzione italiana”5. Per questo scriverà a Lugano (nel 1850) Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-1849, che pubblicherà a Genova nel 1851, e che ha l’obiettivo di definire come unitario il periodo insurrezionale che va dal moto di Reggio Calabria e Messina – agosto 1847 – alla caduta di Venezia – 24 agosto 1849. Chi legge i suoi libri, dice Rosselli, “ha la sensazione d’un incessante frenetico inquieto perché?” 6, relativo alla decadenza italiana. Il suo lavoro è allora speso per identificare il come ridare grandezza all’Italia: “viene in primo piano la rivoluzione nazionale, l’ineluttabilità di conquistare l’indipendenza perché l’Italia per risorgere deve battersi contro uno dei più potenti eserciti del mondo, e questa guerra può essere combattuta e vinta da un esercito rivoluzionario nazionale” 7. Bisognava piantare sul Danubio il vessillo italiano. Nel 1848 italiano era mancato il motore, la forza di coesione necessaria per tale impresa, che un esercito fatto di popolo può realizzare solo sulla base di un convincimento forte: l’idea socialista che può spingere i contadini a cambiare la vanga con il fucile. Nel Saggio sulla rivoluzione Pisacane si sforza di rintracciare le origini tutte italiane del pensiero rivoluzionario, portando a contaminazione la tradizione nazionale con il pensiero socialista contemporaneo, e formulando la sua dottrina che intreccia indissolubilmente rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale. La seconda non può vincere se non è animata dalla prima; il Risorgimento ha come condizione il socialismo, che non è solo mito, ma va inteso come effettiva realizzazione che porterà allo scontro con la borghesia dopo la necessaria alleanza della fase della lotta nazionale. La rivoluzione dovrà costringere la borgesia “ad abdicare al momento di salire al trono” (sono sue parole) perché una rivoluzione diretta da chi già detiene il potere economico-sociale sarebbe una rivoluzione a metà, non cambierebbe la costituzione sociale, ma solo la forma del potere politico. Per questo non è accettabile il modello francese o inglese, fatto proprio dai moderati italiani che lo vedono come l’apogeo della perfezione umana; Pisacane elabora una critica del progresso, che è solo apparente e che è in realtà vicino alla decadenza, ed è tanto poco diverso dal presente che non varrebbe la pena fare una guerra per realizzarlo. La sua critica al capitalismo è mutuata dal pensiero di Proudhon: identifica nel plusvalore e nel progresso economico borghese la radice della miseria.

Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell’industria, tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è da una legge fatale destinato a impoverire le masse fino a che il riparto dei benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li accumulano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non essere altro che decadenza. Se tali pretesi miglioramenti si considerano come progressi, questo sarà nel senso di aumentare la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando l’ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni. 8

In Pisacane, che aveva sempre come punto di riferimento il popolo dei contadini, la svalutazione della rivoluzione borghese come tappa necessaria dello sviluppo si accentua mano a mano che cerca di dimostrare la possibilità della rivoluzione sociale italiana. La possibilità di sconfiggere la borghesia e di realizzare entrambe le rivoluzioni avvengono in Pisacane attraverso la fiducia nella forza delle idee: la rivelazione del socialismo al popolo (che è il compito del genio rivoluzionario e del “patto sociale”) renderà la rivoluzione inarrestabile. Questo aspetto utopico lo separa anche dai democratici e dai mazziniani, perché per lui solo le due rivoluzioni potevano liberare il popolo dalle catene e dall’ignoranza, e solo praticandole con un atto di volontà – anche a costo del sacrificio – si potevano unire la realtà presente (che vedeva il protagonismo delle forze borghesi) alla realtà futura.

Fu l’incapacità o la perfidia degli uomini che rese vani tanti generosi sforzi? La risposta affermativa degraderebbe l’umanità, dichiarando pochi individui arbitri dei suoi destini. Più profonda è la causa la quale dirige la potenza collettiva di un popolo. Non sono gli eroi ed i potenti quelli che cambiano i destini delle nazioni; ma i bisogni delle nazioni che generano gli eroi; questi rappresentano sempre la personificazione di un principio in nome del quale afferrano il potere. E la voce dei geni creatori, che precorrono i tempi, rimane spenta dalla tirannica opinione collettiva, e non ritrova eco che nelle future generazioni. 9

Così rifletteva sulle cause della sconfitta delle rivoluzioni italiane del biennio 1848-1849, e sul ruolo dei protagonisti nel loro rapporto con le masse.

Gli uomini dell’indipendenza, i governi eletti del popolo non sono stati i carnefici dell’Italia, ma i rappresentanti legittimi di un moto puramente insurrezionale. L’Italia è schiava, perché mancava nel popolo la rivoluzione delle idee che deve sempre precedere la rivoluzione materiale, e mancavano i pensatori che nel silenzio del gabinetto avessero cercato il rimedio alle tante sofferenze del popolo, che venivano espresse dall’odio al presente. Un popolo che insorge prima che sappia quali rimedi bisogna apportare a’ suoi mali è perduto. Il periodo rapidissimo in cui le masse si precipitano nell’azione, ben lungi dallo scovrire i bisogni, li nasconde. In tali brevissimi momenti ogni cittadino diventa un eroe. Da questo stadio si passa ad una altro diametralmente opposto. 10

Il suo pensiero si sofferma ad analizzare anche la Repubblica Romana e quindi vale la pena soffermarci sul suo testo.

Ma quale efficacia ha il concetto di guerra ai governi per far sorgere un esercito di popolo che duri in campagna? L’idea che il popolo sino ad ora ha concepito della parola repubblica è quella di uno Stato costituzionale, in cui il potere esecutivo invece di chiamarsi re, si chiamerà presidente, triumvirato, ecc. Che farà questo potere esecutivo sorto da un simile concetto? Quello che fece nel ’49. Convocherà l’Assemblea col suffragio universale, ordinerà immediatamente la guardia nazionale, cui saranno consegnate le migliori armi, farà cantare un Te Deum, bandirà dei bellicosi proclami, e proteggerà la formazione delle bande, in cui ogni cittadino, facendo la guerra per proprio conto, pretenderà con mille uomini salvare l’Italia; forse quest’ultimo errore è sparito e si cercherà ordinare un esercito, sperando che la la plebe corra a formare i numerosi battaglioni, soffra tutti i disagi della guerra, marci a farsi decimare dalla mitraglia, per poi ritornare a vivere una vita di stenti e di miserie, assiderata dal freddo nell’inverno, e spossata sotto la gran sferza del sole nei dì canicolari, lasciando ai capitalisti ed ai proprietari la cura dei suoi interessi, e tutto ciò per la gloria di esser dichiarata sovrana ed ottener nell’altra vita il premio dei suoi sacrifizi. Si cercherà forse sedurne parte con promesse e con denaro, e costringere l’altra parte con la forza? Allora i rivoluzionari ricorrerebbero ai mezzi del dispotismo, mezzi impotenti in uno Stato non costituito. Ma supponiamo tutti questi ostacoli rimossi, e l’Italia divenuta una Repubblica unitaria, Roma capitale, la nazione costituita. Quale sarà il nostro avvenire? Si camminerà dritto all’unità ed alla corruzione francese ed inglese. Non riformando la società, il governo non sarà l’espressione del popolo italiano, ma quella dei pochi individui che lo reggono. Le ricchezze con la libertà accrescendosi, ed accumulandosi in poche mani, distruggeranno la probità individuale di cui ora andiamo superbi, e l’Italia avrà i suoi Falloux, Thiers, Léon Faucher, Montalambert, ecc. Quale è la gloria di appartenere a tale nazione? Non è meglio mostrare i ceppi che ci avvincono che l’oro che ci corrompe? 11

Dopo il lato politico, possiamo provare a delineare la sua biografia. Morto come risaputo a Sanza il 18 luglio del 1857, era nato a Napoli il 22 agosto 1818 da famiglia aristocratica decaduta, figlio di Gennaro Pisacane duca di San Giovanni, e di Nicoletta Basile De Luca. Rimasto orfano in tenera età, le precarie condizioni economiche spingono la madre a risposarsi (1830) A dodici anni entra nella Scuola militare di San Giovanni, a Carbonara. Due anni dopo passò nel collegio militare della Nunziatella. Anche suo fratello Filippo era in quel collegio, ma seguì un percorso diverso: sarà tenente del reggimento degli Ussari rimanendo fedele al proprio re sino all’esilio. Alla Nunziatella gli furono compagni Cosenz, i Mezzacapo, Boldoni, Pianell, Orsini, Girolamo Ulloa, Carrano, Longo, De Sauget (che finirono la loro carriera nell’esercito italiano, alcuni anche senatori del regno). Li ci fu la sua vera famiglia, e la sua vera educazione (scienze esatte, dottrina militare, ma anche lettere, e le pratiche ginniche e d’arma). Dunque la sua fu una formazione come altri, sia meridionali che piemontesi (come i sette fratelli Brunetta d’Usseaux o i due Savio): nei collegi militari si trova così un primo luogo da indagare come lato del prisma. Carlo era molto bravo negli sport, e venne segnalato come fiero cristino, segno di precoce liberalismo. Come era?

Pisacane si presentava allora come un giovanotto robusto, di non grande statura, rotto alle fatiche, curioso del mondo, vivacissimo, dinamico e attraente. Che fosse biondo e dagli occhi azzurri, si sa anche troppo, per testimonianza della sentimentale Spigolatrice di Sapri. Dolcissimi occhi, dice la Mario, e «un non so che di mesto e di rassegnato» errante sulla «spaziosa fronte». «Era ancora imberbe – racconta il Dall’Ongaro, riferendosi a otto anni più tardi – di una bionda e delicata bellezza … Ma sotto quel molle involucro, batteva un cuore di ferro, e l’eleganza aristocratica dei modi faceva contrasto con l’audacia dell’intelletto …» E Mazzini, rievocandolo con appassionato rimpianto: «La fronte e gli occhi … parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l’ingegno, gli occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d’affetto. Traspariva dalla espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto né avventato né incerto, dall’insieme della persona, l’indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sé e l’animo consapevole di una fede da non violarsi né in vita né in morte» 12

Dopo due anni di corso artiglieria e genio a Capua, Carlo viene assegnato poi al reggimento a Nocera. Dopo sei mesi è nominato alfiere del genio e adibito alla costruzione della ferrovia per Capua. Trasferito –sembra per dissidi con il superiore- in Abruzzo nel 1841, vi rimane per quindici mesi. Nel 1843 torna a Napoli e lavora per quattro anni al progetto della nuova strada della collina del Vomero, quella che oggi è Corso Vittorio Emanuele. Nel 1846 è nominato membro del Consiglio di amministrazione del Real Corpo del Genio. Ma la carriera è destinata ad una brusca interruzione. La notte del 12 ottobre il tenente Pisacane viene trovato sanguinante e svenuto con gravi ferite di pugnale davanti la porta di casa. L’8 febbraio 1847 si imbarca con falso nome per Livorno con Enrichetta de Lorenzo, moglie di Dionisio Lazzari e madre di tre bimbi. Così scrive in una lettera di addio ai familiari il 28 gennaio del 1847.

Finalmente Enrichetta mi ha detto je t’aime il 1° giugno 1845. Da quest’epoca abbiamo sostenuto la lotta più eroica che si possa immaginare … La mia nobile, la mia generosa Enrichetta fu da me rispettata come un nume. Non religione, non tema ci spingevano a questo eroismo, ma solamente (la considerazione essere) … infame la donna che appartiene a due uomini nell’epoca istessa … Ma questo stato era troppo violento, non poteva durare: le nostre forze erano all’estremo … I nostri caratteri sono tali da non potersi piegare ad una tresca comune: allora io decisi di allontanarmi … Ma al momento di separarci i nostri cuori vacillarono. Io sarei partito deciso di cercare tutti i mezzi onde incontrare la morte – se il dolore dell’allontanamento non mi avesse spinto al suicidio – Enrichetta ne sarebbe morta al certo: allora decidemmo di partire insieme. 13

Carlo stesso dice di esserne stato innamorato dall’8 settembre 1830, quando la vide per la prima volta adolescente; ma lei aveva dovuto sposare un uomo non amato, ma ricco. La fuga dal conformismo sembra un romanzo d’appendice, ma introducono per noi il secondo spicchio del prisma, il ruolo della soggettività e dei sentimenti (il santuario della vita individuale come lo definisce Mazzini) nella dimensione pubblica e collettiva. Con una importante diramazione del nostro discorso che riguarda il ruolo della donna: la vicenda di Enrichetta è da questo punto di vista esemplare.

Il 31 maggio 1847 Carlo scriveva all’amico Giovanni Ricciardi: «l’amore di madre è in lei fortissimo […] i disagi cui con me va soggetta le fanno temere la perdita di un pegno che porta nel suo seno, e che ci lega, queste due ragioni l’indurrebbero a tornare a Napoli ed a lasciarmi, ed io vedere in questo il suo bene». 14

Abbiamo anche la voce di Enrichetta, che al cognato Filippo scrive il 10 luglio 1851:

Tu mi scrivi che sei curioso di sapere qualche minuto dettaglio della nostra vita, io suppongo tu ne sei ben persuaso del come stia io qui, Carlo a Lugano, i miei figli a Napoli, e bene io te lo spiegherò. Mentre l’anno scorso eravamo in Londra i mezzi di esistenza, cominciavano a mancarci, la mia salute era molto male andata a causa dell’orribile clima, fu necessità risolverci ritornare io in Napoli, e Carlo a vivere in Svizzera, ove il generale, generosamente gli fece un assegno da poter vivere. Carlo mi accompagnò in Genova, sotto il finto nome di un inglese, ma giunti costì la mia famiglia mi scrisse che il vostro augusto sovrano m’interdì l’entrata nel suo regno, perch’io ero stata in Roma, a Velletri, per portare il debole conforto che era in me, sì ai napoletani che ai romani. Fui dunque obbligata a restare in Genova ove la mia famiglia mi invia i 40 Ducati al mese frutto delle mie doti, mia condizione ch’io viva sola, d’altronde Carlo ha chiesto al governo piemontese di stabilirsi in Genova, ma gli è stato negato perché lo credono troppo repubblicano, ed eccoti detto tutto.

Fondamentale è la chiusa della lettera:

Ora non ci resta, come credo di averti già scritto, che attendere una rivoluzione che ci permetta di riunirci, e quindi abbracciare, io i miei figli, la mamma mia, tutti i miei germani e Carlo te e il mio carissimo patrigno, ch’è pure il più bravo nonno 15.

L’itinerario dei due va dunque da Napoli a Marsiglia, poi a Londra e a Parigi rifugio degli esuli politici italiani e non solo. Lì Carlo conobbe molti personaggi illustri come Guglielmo Pepe, che si era trasferito a Parigi dopo l’insuccesso dei moti del 1820, Dumas, Hugo, Lamartine e George Sand. E l’esilio è la nostra terza faccia del prisma, anche ricordando quanto detto all’inizio sulla relazione Carlo – Nello. Una istituzione italiana, che definisce diversamente le comunità in una prospettiva sovranazionale. La maturazione di Pisacane è dovuta, secondo Rosselli, all’esilio.

Ma è verosimile che anche a Pisacane l’idea dell’unità italiana – poi fermissima in lui, se pur la concepisse ravvivata da ampie autonomie regionali – sia balenata là fuori, come a tanti altri, una volta messi in grado di considerarla nel suo assieme, questa Italia, da lontano, fuori dalle meschinità provinciali, e anche da quelle storicamente giustificate gelosie tra Stato e Stato; una volta cioè resi capaci di anticipare nella vivente realtà di un piccolo mondo di esuli la sognata possibilità di una fusione avvenire. Grandi virtù prospettiche, di televisione, diremmo, create, storicamente dall’emigrazione politica, e per le quali soltanto, chi pensi agli ultimi secoli della storia italiana, varrebbe la pena di andar grati ai regimi tirannici! Che sarebbe stata l’Italia senza la periodica forzata emigrazione nel mondo di cospicue minoranze intellettuali che, in tempi d’oscuramento della libertà, quindi della coltura, in patria, assicurarono – fuori – la continuità ideale del nostro sviluppo civile? 16

Tornando ai fatti biografici, ripartiamo dal 1847 quando Carlo lascia Enrichetta a Parigi, si arruola nella legione straniera francese e parte per l’Algeria, dove era da poco stata domata la guerriglia antifrancese capeggiata da Abd el Kader. Quell’esperienza indusse il giovane Pisacane a riflettere sui vantaggi sullo stile imprevedibile della guerriglia contro un esercito regolare abituato ad agire secondo schemi fissi. Rimane poco non adattandosi all’inattività e appena venne a sapere che la rivoluzione, che a Parigi aveva messo fine al regno di Luigi Filippo d’Orleans, si era allargata all’Italia, si congedò e tornò in patria. Nel 1848 quindi, in Veneto e in Lombardia, combatté contro gli Austriaci. Poi, entrò come volontario nell’esercito piemontese partecipando alla prima guerra d’indipendenza. Rosselli ricorda dice che nella sponda meridionale del Garda, le truppe comandate da Pisacane segnano un “progresso rispetto a quel che hanno fatto, nel primo mese di guerra, in quello stesso settore, le bande semi-anarchiche dell’Allemandi” 17. Il conflitto si risolse in una sconfitta per l’Italia, ma Pisacane non si rassegnò e si trasferì a Roma dove, insieme a Goffredo Mameli, Giuseppe Garibaldi, Aurelio Saffi e Giuseppe Mazzini, partecipò alla Repubblica Romana, difendendola con tenacia, ma con poca fortuna, dagli attacchi dei francesi chiamati da Papa Pio IX. Con il fallimento dell’impresa, il 3 luglio 1849 venne arrestato e imprigionato in Castel Sant’Angelo. Liberato poco dopo, partì per Marsiglia, poi per Losanna e infine per Londra dove appunto visse con Enrichetta. Si trasferì a Genova, sempre tenuto d’occhio dalla polizia, e poi sappiamo come proseguì la sua vita pubblica, e lascio a Chiara D’Auria il compito di parlare della Spedizione di Sapri. Io mi soffermo brevemente sul fratello Filippo, che abbiamo già ricordato formarsi anche lui alla Nunziatella, ma con esito opposto. Filippo si sposa all’inizio del 1848 con Donna Maria Livia (1816 + 1901) figlia di Ippolito Cavalcanti, discendente del fiorentino e duca di Buonvicino, che era già stata moglie di Don Mariano Cattaneo della Volta dei Principi di San Nicandro, Patrizio Napoletano. Si inserisce così nella rete nobiliare borbonica, che il fratello aveva drammaticamente abbandonato. Capitano del 2° rgt Ussari borbonico dal gennaio 1849, Filippo in questa veste, nella battaglia di Velletri, combatte contro i garibaldini, mentre Carlo è Capo di Stato Maggiore della Repubblica Romana. Poi, colonnello, comanda la formazione nella battaglia del Volturno, in particolare a S.Maria, contro Garibaldi. Sono i primi dell’ ottobre 1860, con scarsissimi risultati, ma quello che ci interessa sottolineare è che erano passati già tre anni dalla tragedia di Sanza, ma questo non lo aveva fatto lasciare l’esercito borbonico. Al fratello Carlo aveva scritto, quasi in maniera profetica, nel febbraio del 1847.

Filippo, a te lascio la mia sciabola che tiene Labruna, per mia memoria la spada ancora. Giacomino, a te non saprei cosa lasciarti per mia memoria, ma fra tutti i miei libri che tiene Enrico Balzani scegli un opera a tuo piacere. Addio miei fratelli, accettate un tenero abbraccio. Infine cari fratelli miei, lo scritto che si trova nel plico diretto ai parenti tutti vi prego di farlo girare con la massima scrupolosità. Prima a mia Madre, poi alla madre di Enrichetta, a Irene, a tutti infine, ve ne prego caldamente. Filippo ti prego nello scrivermi non dirmi nulla che non sia la pura verità, giacché una notizia deturpata può farmi incorrere in dei passi falsi; Giacomino deve essere il regolatore e tu mentore, non ti offendere di ciò caro fratello, giacché questo dipende dal tuo carattere e non per colpa tua né per tua cattiva volontà. Dite a Capodici se il soggetto di romanzo che le ho promesso, eccolo, solamente se attende il nostro carteggio avrà i nostri due caratteri molto più al vivo, Enrichetta mi supera per energia di 100 gradi. 18

Il loro rapporto ci introduce al quarto spicchio del prisma, il ruolo della famiglia nel processo di costruzione dell’identità nazionale, con le diverse tipologie dei fratelli che si allargano a diversi gradi della fratellanza, che dalla sfera biologica passa a quella pubblica e sociale. Non a caso è stato ricordato il rapporto tra Carlo Pisacane e Rosolino Pilo. Quest’ultimo con il primo “è il suo fratello fedele, ne condivide gli entusiasmi, le gioie, le titubanze, le incertezze, la fede sicura, i disperati propositi di eroismo”. 19
Rimarrebbe da approfondire l’aspetto della memoria che di Pisacane si è tramandata nell’Italia e non solo di quella ottocentesca, visto che a lui vennero intestate anche alcune bande partigiane nella Resistenza italiana. Ma questo lo lasciamo ad una prossima occasione.

Agostino Bistarelli

Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino, Einaudi, 1977 (ma 1ª ed. 1932), p. IX
Così Walter Maturi nel saggio postfazione all’edizione citata, p. 373
Pisacane muore a 39 anni, Rosselli a 37.
Elia Marcelli, Li romani in Russia, Roma, Il Cubo, 2008
Gastone Manacorda, Il socialismo nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1975 ( ma 1966), vol.1, p. 39
Rosselli, cit., p, X
Manacorda, cit., p. 40-41
C. Pisacane, Testamento politico, in, Scritti vari, inediti o rari, Ed.Avanti!, 1965, III, p. 355
C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. Narrazione, Ed. Avanti!, 1961, p.323
10 Pisacane, Guerra combattuta in Italia, cit., p. 325
11 Pisacane, Guerra combattuta in Italia, cit., p. 329. Ma Pisacane ha pubblicato anche opere specifiche sul periodo della Repubblica Romana: Cenni sui fatti del 26 al 27, Roma, dalla Tip. Nazionale, 1849, manifesto Incipit: “La scorsa notte il nemico attacco tutta la linea dei nostri trinceramenti interni”, Firmatario in calce: Il capo dello Stato magg. generale Pisacane colonnello; Lettre du chef de l’etat-major de l’armee de la Republique Romaine au general en chef de l’armee francaise en Italie, Lausanne, Soc. ed. de l’Union, 1849 (14 p.); Rapido cenno sugli ultimi avvenimenti di Roma dalla salita della Breccia al di 15 luglio 1849, Losanna; Soc. editrice L’unione, 1849 (32 pagine)
12 Rosselli, cit., p.9
13 Rosselli, cit., p.12
14 Francesca Viva, Pisacane «privato» prima e dopo il’48. Lettere inedite al fratello Filippo, in, “Nuova Antologia”, a. 139, f. 2231 (2004), pp. 39-59, p. 42
15 Viva, cit., p. 57
16 Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino, Einaudi, 1977, p. 21-22
17 Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano, Torino, Einaudi, 1977, p. 32
18 Viva, cit., p.48
19 Francesco Stocchetti, Rosolino Pilo, Milano, Gastaldi, 1953, p. 34. Ricordiamo appena che anche Rosolino aveva avuto in Ignazio un fratello di cui non condivideva la politica ed il modo di intendere la vita